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“La fontana della morte” di Michele Furchì secondo Andrea Runco

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La fontana della morte

di Michele Furchì

Riflessioni

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Per tutta l’opera narrativa di Michele Furchì, se non fosse che siamo ormai al primo quarto del ventunesimo secolo, potremmo ben dire che il suo modo di porgere gli accadimenti delle storie che ci racconta, fa parte di quella corrente culturale definita verista che attraversò gli ultimi sprazzi della letteratura Italiana dell’ottocento e l’inizio del novecento, la quale ha raggiunto la sua massima espressività con gli eccelsi autori, Luigi Capuana, Giovanni Verga, Grazia Deledda, Edmondo De Amicis ed altri.

Questo perché facendo il parallelismo, l’autore, spesso ci parla di quel feudalesimo ormai giunto al declino totale che si arrabattava come poteva per mantenere quella parvenza nobiliare che ormai non gli apparteneva, perché quel tanto declamato sangue blu che pensavano di avere, per il sopravvenuto impoverimento, in alcuni casi morale ed in altri anche economico, spesso l’hanno dovuto mischiare con quello della nuova borghesia che man mano nasceva ad opera di una diffusa imprenditoria, che pur marginalmente toccava anche il nostro sud. Anzi a dir loro, onta peggiore non si potevano aspettare, se non quella di imparentarsi addirittura con la plebe, ossia con gli umili, ovvero quelle stesse persone che un tempo erano state le loro lustrascarpe. Inoltre a mio modesto discernimento, l’autore ha proprio quel modo di raccontare le storie, specie quando tratteggia con dovizia di particolari e ricchezza d’immagini, luoghi, oggetti e personaggi coinvolti durante lo svolgimento delle azioni che sopravvengono nel racconto, caratteristica propria delle novelle Verghiane. Quindi per me, degno discepolo di si grande maestro.

Comunque è pleonastico dire che la storia regalataci ancora una volta da Michele, è bella nella sua forma narrativa e la ricercata trama che prende le mosse da una vicenda sicuramente successa, nel periodo storico da lui precisato, con un concatenamento di avvenimenti paralleli magistralmente legati al principale, che ci danno la misura di quanto egli è persona precisa nelle corrispondenze, ed anche garbata nei modi e rispettosa del nostro Dio in cui riconosce l’essere supremo che tutto può e mai affligge i suoi figli devoti, anzi, ha dato ad essi l’intera creazione a godimento dell’umanità.

Ciò che maggiormente risalta nell’opera: “La fontana della morte”, è l’intreccio quasi diabolico che per cinismo è stato ordito da Maddalena, dama di compagnia della marchesa che pur di raggiungere il fine prefissatosi che era la scalata sociale, non esitò un attimo nel convincere la sua bella ed unica figlia Giulia a sposarsi con Sergio il rampollo della nobile famiglia, cosciente che la giovane donna era già incinta di Raffaele, al quale aveva giurato amore eterno. Ma il disegno così perverso di Maddalena, finì per ritorcersi contro, perché quest’ultimo si intestardì di volere Giulia solo per sè, cedendo all’unione di lei con Sergio, solo a patto che ella fosse sua quando egli la desiderava.

La futura marchesina per non scontentare la genitrice che aveva fatto grandi progetti su di lei, accondiscese reggendo il gioco fino a quando non si rese conto che il marito stava sinceramente dedicando sé stesso a lei,  riempiendola di attenzioni e quindi si innamorò veramente di lui. Però le richieste pressanti ed ossessive dell’amante la ridussero quasi in fin di vita.

Nel frattempo, per meglio mascherare la doppia relazione, anche Raffaele si era sposato e i due figli, quella con Giulia e quello con Roberta con la quale si era legalmente unito, nacquero e crebbero insieme, al punto che quasi si amavano. Ma non potendo permettere che i due si sposassero, Maddalena, obbedendo forse a quest’ultima regola d’ordine etico, nell’affrontare Raffaele per un chiarimento, fortuitamente passò dal ruolo di probabile vittima a quello di omicida efferata, rovinando la sua vita e dell’intera famiglia del marchese, l’esistenza della figlia, nonché della nipote Adele e Iacopo, salvando solo l’incesto che a loro insaputa, poteva succedere tra fratello e sorella. A seguito di ciò avvenne la disgregazione delle famiglie coinvolte e ognuno andò per la sua strada.

Solo il caso volle che questi ultimi due giovani si ritrovassero in una situazione inaspettata, perché quando lei vede il capitano cieco ricoverato in ospedale, riconosce il fratello da cui si era separata. Ma non volendo rinnovare il dolore di entrambi, non gli rivela la sua identità. Tuttavia essendo ormai una suora crocerossina, ugualmente fa piccoli gesti d’amore nei confronti dell’ufficiale che incuriosito da questi atteggiamenti, o forse guidato dal richiamo del sangue, con un escamotage riesce a convincere la religiosa a parlare e farsi accarezzare il viso, ricevendo la conferma di quanto aveva capito e pronunciando il nome di lei, fece cadere ogni ritrosia nella sorella che subito gli confermò quanto egli aveva già inteso.

Inutile dire che questo scorcio di narrazione è la sintesi e vale il contenuto dell’intera opera, perché a mio giudizio è il frangente in cui l’emozione intenerisce anche i cuori più incalliti, a motivo del fatto che improvvisamente questi due protagonisti, condensati in un solo fiat hanno rivissuto in maniera intensa ogni momento della loro giovane vita che ormai credevano per sempre in solitudine, quindi giurandosi un duraturo e ritrovato amore fraterno, si promisero di rivedersi su quel lido che li aveva visti crescere felici.

Se morale possiamo trarre da questa narrazione, senza dubbio è quella della verità che trionfa sempre, perché come recita un detto: “Tutti i nodi vengono al pettine” e quindi, risparmiando chi innocentemente era parte inconsapevole dell’obbrobrioso disegno, gli altri, giustamente pagano per il male cagionato al prossimo.

Andrea Runco

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